Tutti oramai conosciamo il reato di atti persecutori, meglio conosciuto come reato di “ stalking ”, che consiste nel minacciare o molestare taluno con condotte reiterate tali da cagionargli un grave stato di ansia o di paura ovvero costringer lo ad alterare le proprie abitudini di vita.
Ma tale reato può avvenire anche in ambito condominiale? Il condomino, che continuamente fa rumori in casa in tarda notte, danneggia le parti condominiali, oppure pedina o minaccia gli altri vicini all’interno del condominio, può essere querelato per stalking?
Prima di rispondere a tali quesiti occorre inquadrare giuridicamente il reato di atti persecutori, così come disciplinato dall’art. 612 bis del codice penale.
Il fenomeno criminoso dello “ stalking ” è costituito da una serie di comportamenti persecutori e persistenti nel tempo, realizzati mediante, ad esempio, pedinamenti, telefonate, molestie nei luoghi di lavoro, intrusioni nella vita sentimentale, danneggiamenti di beni , minacce o lesioni personali. Queste condotte incidono negativamente sulla vita altrui e determinano nella vittima una grave condizione di stress psicologico che degenera spesso in gravi forme di ansia, terrore nello svolgimento delle normali attività quotidiane o mutamento delle proprie abitudini di vita.

I numerosi episodi di reiterate molestie ossessive ai danni delle vittime, la crescente attenzione dei mass media per le conseguenti vicende giudiziarie, la scarsa capacità delle vecchie disposizioni del codice penale di reprimere tali condotte delittuose hanno indotto il Legislatore ad elaborare una normativa penale ad hoc confluita all’interno dell’art. 612 bis del codice penale , che prevede
“salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
Per l’effetto dell’introduzione di questa norma, si è arrivati a stabilire che la minaccia o la molestia integrano il delitto di stalking purché esse producano uno stato di grave angoscia, condizione di ansia e credibile timore nei confronti della vittima con inevitabile mutamento della sua qualità di vita. In caso contrario, se tali azioni fossero sporadiche e non ripetute nel tempo non integrerebbero il reato di atti persecutori.
Ma tali condotte cosa devono determinare per parlare di reato di stalking ?
L’art. 612bis c.p. stabilisce che a seguito della molestia o della minaccia reiterate, si deve generare in capo alla vittima un perdurante stato di ansia o di paura.
Per “perdurante stato di ansia ” si intende quel comportamento volto a destabilizzare la serenità e l’equilibrio psicologico della vittima; invece, la “ paura ” è la reazione emotiva derivante da una seria situazione di pericolo.

Preme, in oltre , soffermarsi sulle ultime due tipologie di evento richiamate dalla norma penale, ovvero il fondato timore per l’incolumità e l’alterazione delle proprie abitudini di vita
La prima viene in essere qualora le continue molestie assillanti compromettono la serenità interiore dell’individuo e producono una sensazione di imminente pericolo, non soltanto per il soggetto passivo ma anche per quei soggetti legati da un rapporto di parentela o di tipo sentimentale.
La seconda invece, comprende una serie di comportamenti quotidiani difficilmente classificabili che riguardano, ad esempio: la variazione degli orari di pranzo e cena, la scelta dell’edicola per l’acquisto di un giornale, il rientro a casa dopo la giornata lavorativa, i l distacco degli strumenti telefonici e telematici durante la notte.
Ma come è possibile far rientrare all’interno del reato di atti persecutori lo “stalking condominiale. La giurisprudenza, nelle sue recenti pronunce, ha riconosciuto il reato di “stalking condominiale” nei casi in cui le molestie e minacce ripetute sono riconducibili a un condomino a danno degli altri condomini.
Come è noto, l’ambiente condominiale genera conflitti di vario tipo; la forzata vicinanza tra le persone e l’inevitabile condivisione di spazi comuni, unite ad una sempre più diffusa diversità sociale, economica e culturale dei nuclei umani che vivono in un condominio, causano alterazioni psicologiche tali da mettere in culturale dei nuclei umani che vivono in un condominio, causano alterazioni psicologiche tali da mettere in crisi la loro serenità emotiva.

Nel condominio l’altrui fare e l’altrui utilizzo degli spazi comuni può generare fastidio, risentimento, invidia propositi vendicativi, cioè condotte che in taluni casi sfociano in molestie, minacce e intimidazioni che portano, se degenerano, allo stalking.
L’estensione applicativa del reato di stalking in ambito condominiale pare opportuna poiché, in tale contesto, le condotte poste in essere dal vicino spesso superano il concetto di molestie semplici e rientrano in un quadro di difficile punibilità.
Attenzione però, non qualunque molestia, minaccia o atto vandalico può configurare tale reato; è necessario, infatti, che le condotte illecite siano ripetute nel tempo (e non isolate) e generino nel condomino un grave stato di ansia o di paura tale da determinare un pericolo imminente per la propria incolumità o dei sui congiunti, ovvero la modifica delle proprie abitudini di vita , come ad esempio: la variazione degli orari di uscita e di rientro a casa per evitare il molestatore, la decisione di non prendere l’ascensore o di essere accompagnato in casa per paura di incontri spiacevoli.
La giurisprudenza ha, per tali motivi, ricompreso nel reato ex art. 612 bis c.p. varie ipotesi di minaccia, molestia e violenza privata commesse in ambito condominiale con serialità e reiterazione.

Le minacce o le molestie reiterate nel tempo e poste in essere anche nei confronti di soggetti di volta in volta diversi, ma facenti parte di un gruppo identificabile, quale quello dei condomini che abitano in uno stesso edificio, possono indurre stati di ansia e di paura tali da modificare le abitudini di vita delle vittime, come spesso accade nelle vicende che si verificano in ambiti di vita ristretti.
In tali casi potrà essere presentata una querela però ben dettagliata, indicando tutti i singoli episodi criminosi, a carico dello stalker potendo anche richiedere una misura cautelare urgente.
Nella pronuncia n.39933 del 25 maggio 2013 la Suprema Corte ha ricondotto per la prima volta alla figura dello stalking condominiale le condotte che si traducono nei reati di molestie e di minacce ripetute indistintamente ai danni di tutti i soggetti di uno stesso condominio in misura da indurre in ciascuno di loro uno stato di ansia.
Tale importante pronuncia ha stabilito il principio per cui gli atti molesti non devono essere rivolti necessariamente contro la stessa persona ma anche contro una collettività di persone , come nel caso del condomino, essendo sufficiente che gli stessi si manifestino come ripetizione di atti definibili come persecutori e che, nel loro insieme, cagionino l’evento.

Nel 2019 con la sentenza n. 28340 del 11.02.2019, la Corte di Cassazione inoltre, ha riconosciuto la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di alcuni condomini che avevano pesantemente minacciato i vicini e compiuto atti vandalici, in modo da cagionargli un fondato timore per la propria incolumità al punto tale da fargli cambiare le abitudini di vita.
In ambito condominiale, la vicinanza tra autore del reato e vittima è tale che le condotte criminose potrebbero essere continuate e conseguentemente potrebbe essere vanificata la tutela della vittima stessa.

Quest’ultima pertanto, in alternativa alla querela o, in via preventiva, quando ancora l’evento non si sia consumato, potrebbe rivolgersi al Questore al fine di chiedere l’ammonimento dello stalker (previsto dall’ art. 8 del D. L. 11/2009 ), onde dissuaderlo dalle condotte poste in Ma anche in sede penale potrebbero essere efficacemente disposte delle misure cautelari volte a contrastare il pericolo di reiterazione del reato (e, quindi, ad evitare le possibilità di contatto o di comunicazione tra lo stalker e la vittima), come il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla per sona offesa e, se necessario, anche di quelli abitualmente frequentati da prossimi congiunti della persona offesa o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazione affettiva (art. 282 ter c.p.p.).

Quindi è possibile chiedere misure cautelari come la detenzione carceraria o gli arresti domiciliari.
Una recentissima sentenza della Cassazione penale (Cass. pen. n. 3240 del 27.10.2020), però, ha statuito che la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa non può comportare quello di non usare la propria abitazione.

In conclusione, grazie alle molteplici sentenze della Cassazione, che ha allargato il novero delle condotte rientranti all’interno dell’art. 612 bis c.p., anche il vicino “molesto” potrà essere punito con una pena anche elevata che va da un anno a sei anni e sei mesi di reclusione.

 

Quali cautele contrattuali deve adottare l’imprenditore quanto intende esternalizzare a terzi una propria funzione produttiva.

Il fenomeno dell’esternalizzazione dei processi produttivi è ormai divenuto un elemento intrinseco della filiera produttiva delle aziende, soprattutto delle PMI.

Se la scelta dell’imprenditore di esternalizzare parte dei processi produttivi da un lato potrebbe essere giustificata dalla sua volontà di evitare l’aumento delle dimensioni dell’azienda, dall’altro lato deve comunque essere ponderata attentamente da parte dell’imprenditore anche alla luce della sempre più stringente tutela che l’ordinamento concede ai prestatori di lavoro nei casi di decentramento produttivo.

Cosa dice la Legge Biagi

In ordine a tale aspetto è doveroso segnalare che ai sensi del II comma dell’art. 29 del d.lgs n. 276/2003, più conosciuta come Legge Biagi, in caso di appalto di opere o servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali  ed i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo del contratto di appalto.

È chiara ed evidente la funzione specifica di tale previsione normativa che è volta appunto alla tutela dei lavoratori in materia di appalto, per quei crediti retributivi e contributivi vantati e non pagati dal proprio datore di lavoro, mediante il ricorso del legislatore alla cosiddetta “solidarietà economica” riferibile anche all’imprenditore committente, nella sua qualità di beneficiario finale della prestazione lavorativa dei dipendenti dell’appaltatore.

Le pronunce della Corte Costituzionale e della Cassazione

In tale contesto si è inserita anche la Corte Costituzionale che, con la pronuncia del 6 dicembre 2017 n. 254, ha ritenuto applicabile la tutela della responsabilità solidale in materia di appalti e sopra citata anche ai contratti di subfornitura, prevedendo, altresì, la legittimità dell’estensione della tutela a tutti i livelli di decentramento.

Tale pronuncia, ovviamente, estende notevolmente il raggio di applicazione della cd. responsabilità solidale prevedendo appunto la sua applicazione anche a tutte quelle ipotesi di lavoro “indiretto”, per le quali sussiste una scissione tra titolarità del rapporto di lavoro e utilizzazione del lavoratore ed un’analoga forma di tutela di quest’ultimo rispetto ai rischi che tale scissione comporta per il lavoratore.

Ad ogni modo, si segnala che sulla scia della pronuncia costituzionale sopra menzionata si sono inserite anche varie pronunce della Cassazione (cfr. Cass. Civ. 23 maggio 2019 n. 14051m Cass Civ 8 ottobre 2019 n. 25172, nonché la più recente Cass. Civ. 5 marzo 2020 n. 6299, che hanno ribadito l’applicabilità del regime di responsabilità solidale previsto dall’art. 29 comma II, d.lgs n. 276/2003 anche ai contratti di subfornitura.

Nel solco tracciato dagli arresti del Supremo Collegio e dal riferimento alle ipotesi di lavoro di lavoro “indiretto” contenuto nella pronuncia costituzionale del 2017, il campo di applicazione della previsione normativa dell’art. 29 pare destinato a dilatarsi fortemente, andando, quindi, ad estendersi a molti dei fenomeni di esternalizzazione del processo produttivo dell’impresa.

Se questo è dunque il perimetro del rischio in cui si deve muovere un’impresa posta a capo della filiera produttiva nei casi in cui decida di terziarizzare una propria funzione produttiva, è fondamentale che il medesimo imprenditore si preoccupi ab origine di come intenda attenuare le eventuali pesanti conseguenze che potrebbero scaturire dalle disposizioni sulla solidarietà economica sopra menzionate.

Come può tutelarsi l’imprenditore committente?

Posto che eventuali accortezze non potranno essere opponibili nei confronti del lavoratore dell’appaltatore o del subappaltatore, è necessario che l’imprenditore committente adotti specifiche cautele sia, ovviamente, al momento dell’individuazione di un partner commerciale affidabile – scelta quindi che deve prescindere da sole analisi di compensi al “ribasso” – sia durante la fase negoziale della redazione del contratto nel quale dovranno essere inserite apposite clausole che possano, quantomeno, ridurre al minimo i rischi di responsabilità solidale.

Infatti, tralasciando l’analisi dell’unica possibilità di una totale “copertura del rischio” da eventuali rivendicazioni economiche ai sensi dell’art. 29 del Dlgs 276/03, data dal rilascio da parte del terzista di idonee forme assicurative o, addirittura, di congrue fideiussioni a garanzia del suo eventuale inadempimento, trattandosi di scelta di improbabile attuazione pratica, è opportuno con questo contributo andare ad esaminare quali potrebbero essere le clausole contrattuali da poter inserire nel contratto con il quale l’imprenditore intende regolare l’esternalizzazione della propria funzione produttiva al fine di poter, appunto, minimizzare il rischio della più volte citata solidarietà passiva.

In primo luogo, è quantomeno doveroso inserire uno specifico obbligo a carico dell’appaltatore o subfornitore di consegna della documentazione attestante l’effettivo adempimento di tutti gli obblighi dai quali derivi una possibile solidarietà con il committente per tutto il periodo in cui è in essere il rapporto cd “esternalizzato”.

La consegna di tale documentazione dovrà avere carattere periodico ed ovviamente dovrà essere eseguita sia prima dell’inizio del rapporto che durante l’esecuzione delle lavorazioni, proprio per consentire al committente un controllo specifico ed adeguato in ordine al rispetto degli obblighi contributivi e retributivi dei lavoratori impiegati nel decentramento produttivo.

La documentazione da richiedere all’appaltatore o al subfornitore

Al solo fine esemplificativo, ma non esaustivo, potrà essere richiesta la seguente documentazione, fatti salvi gli obblighi di oscuramento dei dati sensibili e personali relativi a ciascun dipendente:

  1. a) copia dei contratti di lavoro ed elenco delle persone impiegate nella realizzazione dei prodotti che svolgono quindi le lavorazioni in esecuzione del presente contratto;
  2. b) copia del documento unico di regolarità contributiva (DURC) rilasciato dagli istituti previdenziali o documento equipollente, su base trimestrale;
  3. c) documenti inerenti la sicurezza sui luoghi di lavoro;
  4. d) documenti UNI.LAV per ciascun lavoratore impiegato;

 

  1. e) cedolini contenenti i dati relativi alle buste paga dei dipendenti

 

Una particolare riflessione merita il DURC, documento che nella maggior parte dei casi è l’unico che viene allegato all’atto della stipula di un contratto di appalto, in quanto è opportuno segnalare che tale strumento non permette di verificare in tempo reale la regolarità dell’appaltatore rispetto ai propri obblighi di regolarità contributiva, poiché quest’ultima rimane aggiornata solo all’ultimo giorno del secondo mese precedente rispetto a quello in cui la verifica viene eseguita.

In quali casi può avvenire la risoluzione del contratto o la sospensione del pagamento da parte del committente?

Per dare concreta applicazione all’obbligo di consegna di tale documentazione dovrà essere altresì previsto nel contratto che l’inadempimento, anche parziale, di tale obbligo contrattuale potrà costituire legittimo motivo per il committente per la sospensione del pagamento del corrispettivo dell’appalto o della subfornitura, oltre a poter costituire motivo di risoluzione espressa del contratto ai sensi e per gli effetti dell’art. 1456 c.c.

Potrebbe anche essere prevista la risoluzione espressa del contratto qualora l’appaltatore o subfornitore impeghi lavoratori i cui contratti di lavoro non siano riconducibili all’art. 2094 c.c.

Altra accortezza potrebbe essere l’inserimento di apposite clausole di manleva da parte dell’appaltatore in favore del committente per tutte le violazioni di cui agli obblighi in tema di responsabilità solidale; tali clausole potranno favorire eventuali azioni di rivalsa di quest’ultimo nei confronti del proprio terzista direttamente avanti al Giudice in cui è stata incardinata la controversia, senza quindi dover azionare il proprio diritto di regresso in una separata azione civile.

Il consiglio è quindi che l’imprenditore, nel momento in cui intenda esternalizzare una propria fase produttiva ad altro soggetto, si dovrà preoccupare, oltreché del prezzo da dover corrispondere per le lavorazioni, anche della regolamentazione contrattuale del rapporto commerciale, adottando le sopra citate precauzioni, quantomeno per minimizzare il rischio di solidarietà passiva in tema di obblighi contributivi e retributivi dei lavoratori impiegati nel rapporto di “lavoro indiretto”.

Avrete senz’altro sentito parlare di piattaforme digitali.

Il legislatore ne ha recentemente fornito una definizione, precisando che “si considerano piattaforme digitali i programmi e le procedure informatiche utilizzati dal committente che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, sono strumentali all’attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione.”

Si tratta, in tutta evidenza, di una definizione non esaustiva e inidonea a ricomprendere le svariate tipologie di piattaforme esistenti nell’attuale era digitale.

Volendo tracciare un comune denominatore che le caratterizzi, pare potersi  affermare che si tratta di “basi virtuali” che costituiscono un mercato in cui si scambiano beni e servizi e, in talune ipotesi, anche un mercato del lavoro.

Le piattaforme più conosciute

Le piattaforme a maggiore tipicità sociale sono:

  1. a) quelle che mediano l’incontro tra offerta e domanda di prestazione di lavoro di tipo standard e sostanzialmente uniformi (i fattorini di Foodora, gli autisti di Uber);
  2. b) quelle che mediano domanda e offerta di lavoro fisico ma per c.d. micro

lavoretti e servizi specializzati (lavori di pulizia, babysitteraggio);

  1. c) quelle che mediano lavoro digitale che si svolge sulla piattaforma, spesso creativo e specialistico (graphic design, branding, traduzioni).

Il lavoro svolto in tali contesti è remunerato ed organizzato attraverso una piattaforma on line che, a seconda dei modelli, assume un ruolo più o meno intrusivo nel controllo delle prestazioni di lavoro che intermedia.

Lo scopo della mediazione è lo svolgimento di compiti specifici, a volte standard, nel senso di compiti ripetitivi (la consegna di cibo, il trasporto di passeggeri con la propria autovettura, i lavori di pulizia), a volte diversificati e richiedenti un livello di alta professionalità.

Qual è il rapporto tra lavoratore ed impresa?

Il lavoratore è per definizione esternalizzato ed il lavoro non si confronta con i confini dell’impresa.

Tale nuovo scenario pone il problema di individuare qual’è la relazione giuridica che si instaura tra chi presta la propria opera (lavoro subordinato? Autonomo? O che altro?) e la piattaforma digitale e quali possano essere le tecniche di tutela dei lavoratori c.d. digitali.

Va chiarito che la questione naturalmente non si pone in relazione a tutte quelle piattaforme che non mediano lavoro anche finalizzato a servizi, ma si limitano a mediare direttamente servizi: di scambio commerciale (ebay), di affitto d’alloggio (Airbnb), di informazioni turistiche (Tripadvisor).

Viceversa, il problema di quali tutele spettino al lavoratore è particolarmente sentito laddove le piattaforme siano incaricate, dietro pagamento di un corrispettivo, di rendere un servizio al cliente che ha accettato una proposta commerciale e lo realizzino attraverso l’affidamento di quello stesso servizio ad una folla di lavoratori connessi alla piattaforma (o come si suol dire, loggati).

Il tema della subordinazione si pone fortemente quando, ad esempio, viene imposto al lavoratore non solo il corrispettivo per la sua opera, trattenendone una parte sempre unilateralmente imposta e di eseguire la prestazione in base a specifiche modalità per garantire determinati standard qualitativi del servizi, ma soprattutto quando eventuali difformità tra quanto offerto dalla piattaforma e realizzato dal lavoratore siano sanzionate mediante disconnessione del lavoratore dalla app, mediante una sorta di potere disciplinare e di controllo, potenzialmente sintomatico di un rapporto di dipendenza.

Alcuni esempi pratici

Per fare un esempio concreto, basti pensare che Uber valuta l’attività dei prestatori di lavoro tramite i feedback degli utenti e che in caso di giudizi negativi o di mancata risposta all’80% delle chiamate, l’autista verrà disconnesso dalla piattaforma.

Venendo ad un ambito ancor più vicino alle nostre abitudini di vita, maggiormente in periodo di Covid 19, si pensi alle app che garantiscono la consegna di cibo a domicilio (Foodora, Deliveroo, Justeat). In tali casi, la piattaforma acquisisce l’ordine e può avvalersi di un numero imprecisato di fattorini, i c.d. riders, che efffettuano il ritiro al ristorante e il trasporto al domicilio del cliente. I riders, utilizzando un mezzo proprio, sono liberi di accettare o meno di effettuare la consegna nel termine stabilito dalla piattaforma e quale tragitto percorrere. Hanno l’obbligo di segnalare ritardi e mancate consegne, avendo in tal caso una decurtazione del compenso, e saranno disconnessi dalla piattaforma in caso di reiterati disservizi.

Cosa dice la Giurisprudenza

La Giurisprudenza, proprio in relazione ai riders ed in ordine alla qualificazione giuridica del rapporto intercorrente tra essi e la piattaforma, si è espressa con la nota sentenza n. 1663/2020.

I Giudici di legittimità – pur rigettando la teoria di un tertium genus intermedio tra lavoro subordinato ed autonomo – hanno confermato quanto statuito dalla Corte d’Appello di Torino, in ordine alla applicabilità, alla fattispecie della prestazione di lavoro dei riders, dell’art. 2 del Dlgs n. 81 del 2015. Norma che prevede l’applicazione del rapporto di lavoro subordinato anche “ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e luoghi di lavoro”.

La Corte ha pertanto ritenuto di estendere ad una eterogenea fascia di rapporti, correttamente inquadrati nelle collaborazioni autonome, la disciplina protettiva del rapporto di lavoro subordinato. E lo ha fatto per applicare una tutela “rafforzata” nei confronti di alcune tipologie di lavori, quali quelle delle piattaforme digitali considerati deboli.

Incidentalmente, si evidenzia come l’impostazione prescelta dalla Corte sia stata normativamente avallata dalla Legge n. 128 del 2019 che, novellando l’art. 2 del Jobs Act  – oltre a sostituire il termine “esclusivamente” con “prevalentemente” e a sopprimere le parole “anche con riferimento ai tempi e luoghi di lavoro”, con l’intento di incoraggiare un’interpretazione estensiva di collaboratore organizzato dal Committente –  ha aggiunto, dopo il primo periodo, il seguente testo: “le disposizioni di cui al presente comma si applicano qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.

Ma quanto statuito dalla Suprema Corte sul caso dei riders vale dunque a qualificare tutti i rapporti di lavoro gestiti tramite piattaforma?

No, occorre una valutazione caso per caso.

In questo senso è interessante una recente pronuncia di merito – Tribunale Bologna 20.10.2020 – riguardante il disconoscimento di rapporti di lavoro autonomo da parte di infermieri facenti parte di una associazione professionale.

Tra gli elementi che hanno condotto il Tribunale a qualificare i rapporti in termini di subordinazione vi è proprio l’utilizzo di una piattaforma per la gestione delle attività dei singoli associati.

Nel caso di specie il Giudice, evocando un’altra forma di attività gestita con modalità analoghe e cioè proprio quella dei riders, pone l’accento sulla differenza tra una piattaforma che gestisce l’intero rapporto di lavoro tramite algoritmo e una piattaforma che – come nel caso degli infermieri – è utilizzata solo per la registrazione dei dati.

In quest’ultimo caso, la piattaforma costituisce un mero database poiché i poteri di organizzazione, di controllo e disciplinare sono di fatto esercitati da un essere umano quale referente/preposto, il quale il quale ha il potere di determinare luoghi, tempi e modalità della prestazione.

Nel caso dei riders, viceversa, è una macchina – e più precisamente un algoritmo – che decide le modalità di esecuzione della prestazione, con la conseguenza che gli indici per la qualificazione del rapporto di lavoro devono rinvenirsi nell’analisi del programma utilizzato (e dunque nel regolamento istitutivo e di funzionamento della piattaforma).

In definitiva, l’indagine volta ad accertare la sussistenza o meno dei tradizionali indici di subordinazione andrà condotta caso per caso: ed allora, nell’ipotesi degli infermieri, valutando le modalità di utilizzo della piattaforma e dell’interazione del responsabile nella sua gestione; nell’ipotesi dei riders, valutando il regolamento o il programma utilizzato per la predisposizione dell’algoritmo che gestisce l’intero rapporto di lavoro.

Oggi, nell’era dei social media, non esiste persona che non utilizzi la tecnologia informatica, poiché tutti sono in possesso di uno smartphone, di un tablet o di un computer.
Chiunque possieda uno di questi strumenti tecnologici spesso non ha però la contezza dei possibili risvolti che possono discendere dal loro utilizzo, perché, se da una parte tali dispositivi hanno sicuramente migliorato lo stile di vita delle persone, dall’altra hanno determinato anche l’aumento degli illeciti penali consumabili.
Si può scattare foto o filmare degli sconosciuti? Possono essere riprese scene di vita quotidiana di altri individui in luoghi pubblici oppure privati, come ad esempio nelle loro abitazioni o nei luoghi di lavoro? Possono essere diffuse nei social network le immagini visive o sonore di terzi? Si può registrare una conversazione tra più persone?

La differenza tra registrazione e intercetazione

Prima di tutto è doveroso evidenziare la differenza tra registrazione e intercettazione: la legge consente alle persone solamente di registrare una conversazione tra più persone purché, chi registra, sia presente per tutta la durata del colloquio, poiché, in caso di sua assenza, si parla di intercettazione che invece è vietata (è consentita solamente all’Autorità giudiziaria per l’accertamento dei reati).

Pertanto, se una persona intende procurarsi, ad esempio, una confessione di un debito, la prova di un tradimento o quant’altro, la medesima dovrà necessariamente essere presente al momento della registrazione, altrimenti scatta il reato previsto dall’art. 617 bis c.p. (Installazione di apparecchiature atte ad intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche) che prevede la reclusione da uno a quattro anni  per colui che “installa apparati, strumenti, parti di apparati o di strumenti al fine di intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche tra altre persone”.

Premesso ciò, è possibile scattare una foto o riprendere persone sconosciute in un luogo all’aperto o pubblico?

Il Legislatore ha previsto nel codice penale, all’art. 615 bis c.p., il reato di “interferenze illecite nella vita privata”, che diventa la linea di demarcazione tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, prevedendo che “chiunque mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’articolo 614, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Alla stessa pena soggiace, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute nei modi indicati nella prima parte di questo articolo”.

Si evince quindi che è consentito scattare foto o filmare altre persone se la ripresa visiva o sonora è fatta in un luogo pubblico e se non viene diffusa.

L’art. 615 bis c.p. prevede, infatti, due distinte fattispecie criminose: l’indiscrezione e la divulgazione dei dati e delle informazioni captate illecitamente.

Il primo aspetto che prevede la norma riguarda il luogo ove poter registrare: per evitare di incorrere in responsabilità penali, le riproduzioni visive o sonore dovranno essere effettuate necessariamente al di fuori dei luoghi di privata dimora altrui.

L’indiscrezione domiciliare di cui all’art. 615 bis c.p. consiste quindi nel procacciamento indebito di notizie e/o di immagini riguardanti la vita privata, cioè di tutte quelle azioni che si svolgono all’interno dell’abitazione, della privata dimora e delle pertinenze di essa; tale procacciamento, oggi, avviene spesso mediante l’utilizzo degli smartphones.

Ma cosa si intende per privata dimora?

Il significato del termine “luogo di privata dimora” è stato oggetto di vari interventi giurisprudenziali.

Secondo un’interpretazione della Corte Suprema, per luogo di privata dimora si intende quel luogo ove è ammessa l‘esclusione al pubblico, con possibilità di svolgere attività al riparo da interferenze esterne. Pertanto, tale nozione è ampia tanto che è possibile farvi rientrare anche quei luoghi ove il soggetto svolge attività lavorative, ricreative, politiche, culturali, religiose nelle quali si estrinseca la sua personalità.

La ratio quindi dell’art. 615 bis c.p. poggia sulla convinzione che privata dimora e domicilio sono termini correlativi, con l’evidente conseguenza che, affinché si realizzi il reato di interferenze illecite nella vita privata è necessario “l’uso di apparecchiature in grado di cagionare quella medesima offesa alla vita privata arrecata dalla cognizione diretta di notizie o immagini da parte di un estraneo che si trovi fisicamente nel domicilio” escludendosi, pertanto, che “la percezione di alcune notizie o immagini mediata dall’utilizzo di strumenti di ripresa possa essere sottoposta a pena laddove la loro percezione diretta sia invece lecita” (Cass. penale, sez. V, 26.11.2008, n. 44156).

Lo storico delle sentenze

La Suprema Corte di Cassazione è arrivata a sostenere che sulla nozione di domicilio e su quella di privata dimora non vi sono indicazioni univoche.

Infatti, in alcune decisioni si fa riferimento prevalentemente al concetto di utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (ad esempio, il lavoro, il riposo, lo studio, lo svago…), mentre in altre pronunce si pone l’accento sul carattere esclusivo (ius excludendi) e sulla difesa della riservatezza.

Anche la Corte Costituzionale è intervenuta a riguardo, ponendo l’accento sul concetto di “domicilio”, indicandolo: “[…]come diritto di ammettere o escludere altre persone da determinati luoghi, in cui si svolge la vita intima di ciascun individuo, e come diritto alla riservatezza su quanto si compie nei medesimi luoghi” (Corte Costituzionale 05.05.2008, n. 149).

La Suprema Corte ha evidenziato che “nel caso delle riprese visive, il limite costituzionale del rispetto dell’inviolabilità del domicilio viene in rilievo precipuamente sotto il secondo aspetto: ossia […] come presidio di una intangibile sfera di riservatezza, che può essere lesa – attraverso l’uso di strumenti tecnici – anche senza la necessità di un’intrusione fisica […]” (Cass. penale, sez. V, 26.11.2008, n. 44156).

A fronte di quanto detto, ci si può interrogare se l’autovettura possa essere considerata un luogo di privata dimora e, di conseguenza, se sia ivi possibile registrare senza incorrere in un illecito penale.

Secondo una sentenza della Cassazione del 2014 (in tema di intercettazioni): “le intercettazioni tra presenti captate all’interno di un’autovettura sono validamente utilizzabili, eccetto che il veicolo, sin dall’origine, sia utilizzato oppure destinato ad uso di privata abitazione. Dunque, non sussiste il divieto di utilizzazione di cui all’art. 271 c.p.p. di una conversazione registrata nell’abitacolo di un’automobile che funge da normale mezzo di trasporto di persone od oggetti” (Cass. penale, sez. V, sentenza n. 45512/14).

Tale principio permette di sostenere che l’autovettura non può essere considerata a priori un luogo di privata dimora ma ciò va valutato caso per caso. Pertanto, a seconda della sua destinazione, può essere integrato o meno il reato ex art. 615 bis c.p.

Ne deriva inoltre, che ove una determinata azione, che pur si svolge in luoghi di privata dimora, possa essere liberamente osservata da terzi senza ricorrere a particolari accorgimenti, il titolare del domicilio non potrà legittimamente invocare alcuna lesione dei diritti inviolabili sanciti dagli articoli 2 e 14 (libertà domiciliare) della Carta Costituzionale. Quindi, nell’ipotesi di videoriprese concernenti immagini o comportamenti avvenuti in luoghi di pertinenza dell’abitazione di determinati soggetti, ma non protetti dalla vista degli estranei, non può ritenersi ipotizzabile un’intrusione nella privata dimora per l’assenza di qualsivoglia protezione dallo sguardo altrui.

Ad esempio, una recente sentenza della Cassazione ha ritenuto non sussistente il reato in oggetto nell’ipotesi di un soggetto che si era procurato fotografie, dal tenore molto spinto, di una signora intenta ad uscire dalla doccia della propria abitazione sprovvista di tende alle finestre, poiché tale condotta è stata posta in essere senza contrastare o eludere, clandestinamente o con inganno, la volontà di chi abbia il diritto di escludere dal luogo l’autore delle riprese (Cass. penale, sez. III, 08.01.2019, n. 372).

Altro caso nel quale non si è ritenuto applicabile la fattispecie in esame è quello della domestica che, lavorando “in nero”, aveva ripreso la casa dei propri datori di lavoro al fine di provare in giudizio la propria attività lavorativa (Cass. penale n. 46158 del 2019).

Viceversa, il datore di lavoro che, all’insaputa del dipendente, registra le comunicazioni e/o riprende quest’ultimo, potrebbe incorrere nel delitto di interferenze illecite nella vita privata e non in una mera violazione dello Statuto dei Lavoratori.

Il secondo comma dell’art. 615 bis c.p. sanziona, invece, la condotta di chi divulga informazioni ottenute secondo i modi e nei limiti previsti dal primo comma. Più precisamente, la condotta di divulgazione deve essere di rivelazione, ossia la notizia deve essere portata a conoscenza di soggetti terzi, oppure di diffusione, ossia deve essere comunicata ad un numero indeterminato di destinatari attraverso qualsiasi mezzo di diffusione.

Quindi è possibile affermare che sono vietate le diffusioni di segmenti di vita privata svolgentesi all’interno di luoghi di privata dimora.

Al di fuori della privata dimora però è necessario stare molto attenti, atteso che è comunque vietato pubblicare o diffondere video o file audio senza il consenso della persona, poiché ciò determina una violazione del diritto alla privacy, salvo che la pubblicazione non riguardi una persona nota o famosa (ad es. politico, attore, cantante) in avvenimenti di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.

È successo a molti di voler mettere un video sui social media, ma è necessario sapere che le persone ritratte nel proprio video devono aver acconsentito alla pubblicazione dello stesso, altrimenti si potrebbe incorrere nella violazione del diritto alla privacy e, in assenza del consenso della persona lesa, questa potrebbe sempre richiedere di essere risarcita per il danno subito. Quest’ultima ha diritto, infatti, al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali (come ad es. il danno morale causato per la vergogna, l’angoscia etc.)  subiti a seguito della diffusione o pubblicazione dell’immagine o del video.

Cosa dice il codice della privacy?

Il Codice della privacy (D.lgs. del 30.06.2003 n. 196) sanziona, all’art. 167, il trattamento illecito dei dati personali avvenuto attraverso la pubblicazione non autorizzata di immagini o notizie sul web, con la reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi se recano nocumento all’interessato, reclusione che però aumenta da uno a tre anni se riguardano i dati sensibili.

Infine, fuori dai casi previsti dal secondo comma dell’art. 615 bis c.p., qualora la foto o il video fossero lesivi della reputazione della persona ripresa o interferiscano con la vita privata del soggetto, colui che li rende pubblici potrebbe incorrere nel reato di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente, disciplinato dall’art. 617 septies c.p., che punisce con la reclusione fino a quattro annichiunque, al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati o registrazioni, pur esse fraudolente, di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, svolte in sua presenza o con la sua partecipazione”.

In conclusione, la correlazione tra l’utilizzo dello smartphone e la commissione di un illecito penalmente rilevante è molto più stretta di quanto ciascuno potrebbe pensare; pertanto, è necessario prestare molta attenzione alle modalità di utilizzo degli strumenti tecnologici, che possono presentare insidie in termini di responsabilità penali nonché risarcitorie.

 

Avv. Giacomo Chiuchini